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La mano di Aurelio

La mano di Aurelio

È cresciuto nel cinema, da 21 anni è presidente del Napoli, che ha conquistato il secondo scudetto in tre sole stagioni. Può essere insopportabile ma è tutto tranne che sciocco. Per il pubblico e la città una lezione di imprenditoria e un costante e inesausto spettacolo d’arte varia. Ritratto di De Laurentiis

La sera del 21 agosto 2004, dopo un’amichevole con i dilettanti del Monte Amiata, l’uomo che si sentiva nei panni di Achille Lauro comandò alla squadra di trasferirsi nel castello di Torre Alfina per festeggiare. Aveva ancora nelle orecchie i cori dei tifosi che lo osannavano: “Facci sognare, Luciano facci sognare” e negli occhi la foto della bandiera con lo scudetto su sfondo azzurro pubblicata dai quotidiani che ritraendolo dietro alle balaustre del San Paolo ne smagriva involontariamente la figura. Un’illusione, come tutto il resto. Sudata l’estate tra una visita a Gianni Letta, un bagno di folla e un intervento del Presidente Ciampi: “Si faccia di tutto per aiutare il Napoli, nel rispetto delle regole” il signor Gaucci, convinto di aver rilevato a prezzi tutto sommato ragionevoli un Napoli tecnicamente fallito, sentiva di potersi concedere una pausa. Voleva brindare con Aldo Adorno, meteora paraguaiana poi emigrata a Cipro, con l’allenatore Angelo Gregucci, con il centrocampista Gerardo Schettino da Vico Equense e con gli altri suoi straccioni di Valmy. Voleva rilassarsi rimirando le guglie della sua magione tra Umbria e Toscana in attesa di poter aggiungere a Catania, Sambenedettese e Perugia un’altra proprietà. Nelle more dell’incastro infernale di attribuzioni e poteri, lotte fratricide, imbarazzi e risse tra governo, tribunali e Federcalcio, persuaso con qualche ragione che la finzione, in un paese incline al gesto teatrale, valesse più della realtà, Gaucci il situazionista, il presidente patriota che aveva dichiarato il sudcoreano Ahn, “colpevole” di averci buttato fuori dai Mondiali, persona non grata in diretta tv da Biscardi: “Io non lo ri-scat-to! Non è una persona che si è comportata bene avendo visto il pane bianco per la prima volta in Italia”, aveva occupato la scena e spedito in un grottesco ritiro a Tarvisio un ciuffo di ragazzi sconosciuti per poi, al tramonto di luglio, abborracciare una formazione appena più presentabile e sistemarla in un tre stelle di Abbadia San Salvatore in attesa che qualcuno decidesse in che stazione dovesse fermarsi il Napoli.

Lucianone sembrava in grado di controllare la situazione. Confusa, perché la squadra ballava tra la ripartenza in terza serie, grazie al Lodo Petrucci che in caso di dissesto finanziario permetteva di conservare il titolo sportivo scalando di una categoria, la pretesa di conservare la serie B, le proteste di piazza e la sparizione definitiva. Agitata perché la tramontana dei giornali del nord soffiava impetuosa: “Il Napoli è costato agli abitanti dello stivale, compresi lattanti e ottuagenari, mille lire a testa. Non ha versato 60 miliardi di lire di imposte. Ce n’è abbastanza perché lo stato faccia pignorare anche l’ultimo filo d’erba del San Paolo”. Florida, in sintesi, perché nel traffico della vita e nel caos, l’ex conducente d’autobus Gaucci Luciano, sapeva guidare come nessuno. Cercava la stampa come l’assetato brama l’acqua: “Voglio il Napoli in B per portarlo in A, questa grande forza non può scomparire perché il suo amore per il calcio è immenso”. Evocava in pubblico scenari pre-insurrezionali: “Non vi chiedo di marciare su Roma, ma difenderemo i nostri diritti”. Titillava megalomania e metafore identitarie: “Io sono come il Vesuvio”. Prometteva acquisti esotici: “Porterò un brasiliano e perché no, anche un argentino”.

Regalava mazzi di fiori al sindaco Rosa Russo Iervolino. Impegnato nel compromesso storico: “Non sono uno sprovveduto, ho ottimi rapporti con Capitalia e con Cesare Geronzi”, a metà strada esatta tra il pane e le rose, non vide arrivare l’attore protagonista, il divo che avrebbe apparecchiato il banchetto, il rivale che non gli avrebbe lasciato neanche gli avanzi dell’ultima cena.

Aurelio De Laurentiis al calcio non aveva mai guardato. Da ragazzo giocava a basket, pensava alle ragazze e alle auto: “Sono nato nel ‘49, l’anno in cui alla Vasca Navale nasceva la Ponti-De Laurentiis. Sono cresciuto lì, ero appassionato di motori e quando arrivavo tutti nascondevano le chiavi perché io salivo e mettevo in moto. Una volta ho distrutto la macchina di Lizzani” e faceva la gavetta sui set di Nanni Loy alzandosi alle 4 del mattino. Più o meno la stessa ora in cui era nato Dino, il fratello di suo padre Luigi. Amante dei casinò, fine esoterista, imprenditore nelle cartiere, appassionato di filosofia, inventore di riviste per poeti, coltissimo poliglotta e produttore cinematografico nell’età adulta, il professor Luigi De Laurentiis, iniziato al mestiere da Dino, aveva a propria volta tramandato il sapere suo ad Aurelio. Perché è così che fanno le dinastie e perché il vero talento che ai De Laurentiis non è mai mancato è la determinazione. Se si immagina, si può fare.

Dopo l’8 settembre, Dino era fuggito a sud con Mario Soldati: “Mulattiera fino a Rocca Pia. Rocce sparse e bassi cespugli. Saliamo in silenzio. Guardo questi ragazzi che vengono con noi e che andranno così, a piedi, e in silenzio, fino in Calabria e in Sicilia. Hanno in cuore la meta, la casa, e la tristezza irragionata, inarticolata di chi è stato ingannato e tradito”. I tifosi del Napoli che andavano alla guerra con la polizia, riempivano di uova la portiera dell’auto di Franco Carraro, avversavano il “sistema” e minacciavano di assediare Palazzo Chigi covavano il medesimo sentimento. Spaventati, si erano aggrappati a Gaucci riempendo il San Paolo in quarantamila nella notte che con relativa fantasia avevano battezzato “dell’orgoglio napoletano”, avevano osservato le ombre di Paolo De Luca e Giampaolo Pozzo, i concorrenti virtuali, evaporare nell’afa e proprio mentre la stanchezza per la querelle sembrava aver intasato i tribunali, reso il garbuglio nodo gordiano e preso definitivamente il sopravvento dichiarando gauccione vincitore per consunzione, da Capri, aveva fatto sentire la sua voce, con piglio da statista, chiarezza d’intenti e inevitabile retorica, Aurelio De Laurentiis: “Sono fermamente convinto che il recupero dell’Italia passi anche attraverso grandissimi investimenti sul Sud che ha delle potenzialità inespresse e gigantesche. Non c’è dubbio che la città di Napoli meriti cura e rappresenti la massima espressione del Sud. Bisogna lavorare in modo moderno e con perseveranza. Il Calcio Napoli potrebbe promuovere felicemente il lato migliore di questo angolo d’Italia così ignorato e bistrattato”.

Nella stessa isola, ispirati dai faraglioni, Soldati e Dino rivendevano ai soldati americani le ginger ale riempite d’acqua salina al prezzo di un dollaro. Aurelio non ingannò nessuno. In dieci giorni in cui minaccia più volte di far saltare la trattativa, assiste disinteressato a qualche manifestazione di dissenso, tacita i suoi avvocati che vorrebbero fargli ritirare l’offerta, si prende il Napoli. Nonostante i banchieri come Alessandro Profumo cerchino di dissuaderlo, nonostante la moglie Jacqueline Baudit, 43 anni di matrimonio, passaporto svizzero, erre agnelliana, oggi vicepresidente della squadra, deroghi all’eleganza e gli dia estemporaneamente del pazzo se non di peggio, nonostante l’azzardo e anzi, forse, proprio per quello. L’idea gli viene mentre è convalescente. Ha problemi al menisco, come sovente accade ai ragazzi in mutande che sta per stipendiare e muove la gamba per compiere il primo passo di una traversata lunga ventuno anni. Non è tanto sopravvivere. E neanche farlo vincendo. E’ resistere, in un circo improbabile abitato da finti sceicchi, cialtroni e mitomani, donando al gentile pubblico una notevole lezione di imprenditoria e un costante, inesausto e mai domo spettacolo d’arte varia. Aurelio che manda a fare in culo i colleghi presidenti e salta sul motorino del primo centauro che passa lasciando a favore di telecamera, sul suolo lombardo di una reunion milanese, frammenti che sarebbero piaciuti a Carmelo Bene: “Siete delle teste di cazzo, va bene? Voglio ritornare a fare il cinema, siete delle merde”. Aurelio che dà del trippone a Higuain: “Ha un chilo e mezzo in più che funziona come un mattone”. Aurelio che dissente dal Philip Roth dell’“abbiamo fatto ciò che abbiamo potuto con quello che avevamo” e mostra di voler andare oltre: “Il San Paolo è un cesso”. Aurelio che, severo ma giusto, racconta la pura verità a un giornalista che gli domanda se se la senta di promettere lo scudetto. Partenza tenue e conciliante con toni suadenti: “Per quanto riguarda la promessa posso dire che ci impegneremo per ottenere il massimo”, pausa teatrale e finale in crescendo. Un classico della dialettica delaurentisiana: “Le dico la verità, lei ha già vinto perché dodici anni fa stava nella merda. Lei nuotava nella merda dodici anni fa, glielo dico io”.

Forse dovremmo davvero ringraziarlo, come effettivamente auspicò facessero i tifosi un giorno di tanti anni fa, Aurelio De Laurentiis. Il cattivo del saloon, quello che rovina la festa, Aurelio il rompicoglioni: “In realtà sono un romantico. Una volta un regista chiese a mio padre: ‘Ma perché Aurelio è sempre incazzato, sgradevole, duro?’. ‘Vedi, tu non hai capito che, quando Aurelio manda qualcuno a fare in culo, si realizza’. Io origliavo dietro la porta. Entrai, abbracciai papà e lo baciai”. Con Napoli e con i napoletani, storicamente indocili, è capitato spesso. Di baciarsi e di mandarsi a fare in culo. Lo chiamavano pappone. Gli facevano i cori contro: “Vinci solo tu”. Era la più infamante delle menzogne, ma il tempo è galantuomo. Contestatori non se ne trovano più neanche a caro prezzo anche se in un gioco in cui se vinci sei un profeta e se perdi ti danno regolarmente dell’incapace quando non proprio del coglione, in un giro di ruota in cui la gloria dura solo un attimo, è sempre possibile si ripresentino. Aurelio De Laurentiis sarà ancora lì. E’ cresciuto nel cinema. Il luogo dell’attesa. Quando Marcello Mastroianni sente strani rumori provenire da uno dei camper appoggiati ai margini di un set ambientato in Marocco apre la porta e si trova di fronte il piccolo Andrea Rizzoli. Si scrutano in silenzio. Poi Marcello traccia il solco: “Bimbo, il cinema è aspettare”. Aurelio ha saputo farlo. E’ stato presidente del Napoli per più di un quarto della sua vita. A guardare numeri e percentuali, bagattelle nelle quali è maestro, ha trascorso il ventisette virgola sessantatré per cento della sua esistenza tra assemblee di Lega, procuratori, calciatori felloni, giuramenti eterni, tradimenti repentini, immobilità burocratiche e telecamere. La sua squadra ha appena conquistato il secondo scudetto in tre sole stagioni. Negli ultimi sette decenni c’erano riuscite soltanto Inter, Milan e Juventus. A Dan Friedkin, la Roma, tra acquisto e investimenti, è costata poco meno di un miliardo di euro, Redbird ha irrorato il Milan con 825 milioni, il signor Krause, a Parma, ne ha sborsati più di 440. Aurelio De Laurentiis ha speso meno di Saverio Sticchi Damiani del Lecce. Sedici milioni in ventuno anni. Incassando tre miliardi e mezzo di ricavi con plusvalenze mostruose figlie di un innegabile fiuto nello scovare, persino in Georgia, campioni come Kvaratskhelia sfuggiti ai radar di magnati sicuramente più ricchi del Dela, ma impigriti, disattenti e fallaci nell’eleggere i collaboratori. Aurelio sa farlo. Delega poco, decide lui e quando sbaglia sa anche il perché. Nella complessa alchimia tra natura e sentimento, razionalità e istinto, ogni tanto Aurelio perde le coordinate. Il Napolista, una piazza piena di intelligenza applicata al pallone, in questi anni con la penna felice di Massimiliano Gallo ne ha dipinto senza sconti carattere cangiante, asperità e contraddizioni. Ma l’ha lodato, quando le doti erano meritate, mettendo in evidenza una qualità che nella lettura superficiale del funambolo, nella concessione al colore più che alla sostanza, sottovaluta che per salire sul trapezio ci vuole preparazione. Aurelio non conosceva le regole del gioco e si è calato nella parte.

Aurelio allena le sue mosse e non salta mai per caso. Aurelio può essere insopportabile, ma è tutto tranne che sciocco. Ha litigato con tanti allenatori perché la spesa emotiva è intensa, il palco è stretto, gli ego si sfidano a singolar tenzone e il logorio è insito nel rischio di impresa. Ma sa cambiare idea e, se serve, anche verso al destino. La parola non gli piace. L’uomo, non sarebbe neanche utile sottolinearlo, è sempre artefice del proprio. E Aurelio lo ricorda anche a chi vuol bene.

Quando trovano il nome di Costanzo nelle liste della P2, Maurizio, all’improvviso contrae la lebbra. I sodali spariscono. I miracolati voltano le spalle. La gente scappa a gambe levate. De Laurentiis lo cerca, lo consola e lo sostiene: “Chi mi aiutò a riemergere? Un mio grande amico, Aurelio De Laurentiis, che mi propose di fare un viaggio televisivo che avesse come tema l’amore. Partii con una piccola troupe. L’esperienza mi confortò. Andavo nelle piazze della provincia profonda e nessuno mi rinfacciava niente. Nessuno mi diceva un cazzo. Capii che avevano compreso e che mi stavano dicendo: ‘Annamo avanti’”. Aurelio lo ha sempre fatto. A Napoli, quando arriva per la prima volta, non ci sono neanche magliette e palloni. Aurelio non solo li compra e affronta i suoi campionati di retroguardia affrontando Massese e Gela: “Ho girato per campi in cui mi sputavano sulla testa e dovevo barricarmi per ore negli spogliatoi a fine partita. Era divertente ed ha rappresentato una scuola di vita per capire il calcio e la territorialità”, ma edifica la sua cittadella cominciando a tagliare i ponti, anche culturalmente, con le incrostate prebende del passato. I biglietti omaggio, i favori dovuti, le untuose rappresentazioni del potere che si toglie il cappello di fronte a un altro potere sul corso principale perché tutto rimanga gattopardescamente immobile. Del microcosmo in cui, come scrive Paolo Sorrentino, “come ti muovi, vai a sbattere sempre contro le stesse persone che conosci da quando sei nato” Aurelio se ne frega. Un po’ non lo conosce. Un po’ gli fa orrore. Avrà anche antenati in regione, ma viene da Roma e di ciò che c’è stato in precedenza, fa tabula rasa. Al cinema, era abituato così. Un set si monta e poi si smonta, ma un capo, un direttore dei lavori, qualcuno che indichi la linea, ci vuole. E se la linea devia dal percorso, ci vogliono anche i calci. Jerry Calà ricorda che Aurelio sperimentava in prima persona la materia: “Eravamo giovani, scapestrati. La sera cenavamo insieme e la mattina dopo aver fatto baldoria essere puntuali era dura. Ci venivano a cercare e non sempre finiva con una pacca sulla spalla. Una notte in un locale mi sono addormentato dopo aver bevuto la Grolla dell’amicizia, un veleno da ottanta gradi e sono scivolato sotto il tavolo. Il proprietario mi aveva chiuso dentro. Di prima mattina la prima cose che sentii furono gli improperi di De Laurentiis: mi sollevò da terra e mi portò sul set prendendomi per le orecchie”.

Alla fine, in coscienza, quanto si può cambiare veramente? Il De Laurentiis che i tifosi hanno conosciuto agli albori dell’avventura napoletana non è poi troppo diverso da quello di oggi. Era convinto, già allora, che non esista ambito che non si possa migliorare: “Il mio primo obiettivo è riportare allegria al San Paolo: prometto un calcio divertente, come i miei film al cinema. Basta chiacchiere, è tempo della serietà e dei fatti. Il mio modello sarà Della Valle. Voglio creare una società organizzata. La fretta è degli stupidi. Abbiamo il tempo che ci occorre: è l’ora della concretezza, l’ammuina è finita”. Se come scrive Giorgio Manganelli il romanzo non è altro che “un aneddoto allungato”, la storia di De Laurentiis a Napoli somiglia a un libro che sarebbe un peccato leggere dall’ultima pagina. Se lo apri dal principio, scopri che Aurelio l’ha scritto proprio come voleva. Per vedere dove si arriva non è ozioso chiedersi dove si voglia andare. All’epoca in cui aveva messo nelle sapienti mani dei fratelli Vanzina lo scudiscio per costringere gli italiani a specchiarsi nelle loro voluttuose nefandezze, Aurelio aveva già capito tutto. Carlo ricordava che alla prima romana di “Sapore di mare” Aurelio lo aveva quasi strattonato per l’entusiasmo: “Era seduto in sala. Si alzò di scatto e ci raggiunse: ‘E’ un capolavoro, domani venite a pranzo con me che voglio farvi girare un film sulla neve’. Il contratto di ‘Vacanze di Natale’ lo firmammo su un tovagliolo”. L’espediente lo aveva utilizzato anche il padre dei Vanzina, Steno, quando incontrando Alberto Sordi per ingaggiarlo in piazza del Popolo gli aveva chiesto quanto volesse per recitare in “Un americano a Roma”. Sordi aveva scritto una cifra sulla tovaglia, Steno aveva annuito e si erano stretti la mano. Anni dopo, in un’altra occasione conviviale, Steno si era avvicinato a Sordi e gli aveva confessato: “Ma sai che quel giorno, se mi avessi chiesto cinque volte tanto, ti avrei accontentato?”. Sordi aveva sorriso a mezza bocca. De Laurentiis, al suo posto, avrebbe girato la storiella a proprio favore o nella peggiore delle ipotesi negato la circostanza prima di tutto a sé stesso.

La prima regola di Aurelio è dimenticare il brutto, la beffa o l’occasione persa per dare spazio a una visione che metta in luce il suo contrario. La seconda è considerare le buone maniere che ratificano lo status quo un sinonimo di ipocrisia. Se deve dire ciò che non pensa, Aurelio preferisce tacere. Non succede quasi mai, perché ad Aurelio, desacralizzare, non dispiace. Quando arriva un ragazzo di Rete 8, la principale televisione abruzzese, per chiedere a lui e al presidente di regione Marco Marsilio di commentare la partnership che in agosto mette in mostra i campioni d’Italia a Castel di Sangro, il primo a parlare è Marsilio. Gli domandano di Rita De Crescenzo. De Laurentiis un po’ fibrilla e un po’ si annoia. Sa dove si andrà a parare e non ha intenzione di tollerarlo. Ha grandi occhiali scuri da gendarme cileno, fatica a non sbadigliare, si guarda intorno sornione alla ricerca di una via di fuga. Poi, proprio come un memorabile personaggio verdoniano: “Non so’ un santo manco io”, convinto di aver espiato a sufficienza, si trasforma in quel genio di Max Giusti. La voce prorompe, la mano si impossessa del microfono e Aurelio dà sfogo al contropiede che dal suo punto di vista incarna l’ideale trinità tennistica: gioco, partita, incontro. “Posso farle io una domanda? Lei quanti anni ha?”. L’altro, guardingo: “Venticinque”. Gli ha appena alzato la palla e Aurelio ha scelto lo smash: “Ecco e lei, a venticinque anni, perché appartiene a quelle televisioni stantie e vecchie che vogliono solo rompere i coglioni e devono sempre parlare delle cose che non funzionano invece di quelle cose che in Italia possono funzionare?”. Il soliloquio di Aurelio è come l’oceano di Lucio Dalla: non lo puoi fermare e non lo puoi recintare: “Se l’Italia va male è anche per colpa vostra. Quando la sera ceno e vedo il telegiornale della disgrazia io mi tocco le palle. Ma non si può rompere i coglioni agli italiani facendo dei telegiornali pieni di cattive notizie, voi dovete essere gli ottimisti, se non lo siete voi che siete giovani ma chi cazzo lo deve essere?”. Il malcapitato pigola: “Noi portiamo notizie, poi che siano buone o cattive quello dipende da cosa succede”, ma Aurelio è già lontano, sulla biga: “No, facendo così voi portate sfiga e uno si tocca i coglioni”. Dell’adontato comunicato del Sindacato giornalisti abruzzesi: “Di fronte a un atto di bullismo dialettico rivolto a un operatore dell’informazione non c’è niente da ridere” sente solo l’eco lontana. Enrico Lucherini lo aveva soprannominato “Momenti di boria”. A De Laurentiis un certo modo di non sembrare non ha mai creato un problema, ma pur essendo nato il 24 maggio, in guerra è andato soltanto se era convinto di essere nel giusto. Prima di criticare le istituzioni internazionali: “Fifa e Uefa operano in posizione dominante e nessuno dice loro nulla” e sistemare il Napoli tra le prime trenta squadre del mondo ha cercato di intuire se la passione potesse trasformarsi in progetto. “Alla prima partita contro il Cittadella al San Paolo vennero 65 mila persone”. Sessantacinquemila cuori orfani di Maradona che se Aurelio avesse avuto a disposizione, forse avrebbe scritto una parabola diversa da quella di cui Diego si crucciava con Kusturica: “Emir, sai che giocatore sarei stato se non avessi tirato cocaina? Che calciatore ci siamo persi”. Aurelio avrebbe difeso l’uomo e l’investimento perché pur riscrivendo a suo modo la delicata distinzione lotitiana tra “prenditori e magnager” si trovava pienamente d’accordo con il collega: “Ci sono gli imprenditori che vogliono fare impresa e ci sono i prenditori che vogliono fare presa”. E lo avrebbe difeso, El pibe, perché l’amore, quando c’è, non si spiega. Diego era amato e Aurelio avrebbe tenuto il dato di fatto nella giusta considerazione: “Ho sempre saputo interpretare i gusti del pubblico”. A Napoli, quello pagante, voleva la conferma di Antonio Conte. Nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo e invece, Conte è ancora lì. Sullo scranno che in epoche precedenti fu di Bianchi e che con Aurelio toccò a nomi come Reja, Benitez, Gattuso, Sarri e Ancelotti. Enzo Biagi giurava che se Berlusconi avesse avuto le tette avrebbe fatto l’annunciatrice. De Laurentiis, che non disdegna l’autostima e come ebbe modo di testimoniare Neri Parenti non sempre abbraccia con convinzione il senso del limite – “Avevamo già girato più della metà di ‘Natale a New York’ e stavamo per imbarcarci da Fiumicino in direzione Stati Uniti. Era l’11 settembre. Il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Non partimmo, ma Aurelio non si voleva arrendere. ‘Tra qualche giorno sarà tutto a posto, ve lo garantisco’. Gli attori dubitarono. ‘Che ne sai? Hai parlato con Bin Laden?’. ‘Non ancora. Renata, cerchi subito il signor Bin Laden’, ordinò alla segretaria che non batté ciglio. ‘Certo, dottore, casomai lascio un messaggio’” – non ha mai suggerito una formazione in vita sua. Ha licenziato tecnici e direttori sportivi, ha multato l’intera rosa, ha fatto accomodare alla porta leggende in odore di intoccabilità: “Se Callejon e Mertens vogliono andare a fare le marchette in Cina perché sono strapagati e sono disposti a passare due o tre anni di merda, il problema è loro”. Ha fatto questo e tanto altro, ma pur esondando in coincidenza di un temporale, è riuscito a tenere il fiume negli argini e la barca in rotta di navigazione. Ora si gode plebiscito e apoteosi giurando che il matrimonio, comunque vada, sarà senza data. “Finché respiro cercherò di tenere in vita il Napoli. Poi, quando non ci sarò più, se i miei figli vorranno cederlo, lo faranno. Io ho già rifiutato 900 milioni. Non venderei il Napoli nemmeno per due miliardi e mezzo di euro. Il calcio si identifica con la città, con un popolo, con un’idea”.

Aurelio lo scaramantico, il presidente che detesta il viola e crede a malocchi e invidie, che dietro la scrivania conserva un corno lungo un metro e volle girare a Madrid gli interni di “Natale sul Nilo” solo perché il precedente film in Spagna era andato bene, ha messo nell’indifferenziata anche la scaramanzia. La tiene come un soprammobile, essenziale per ricordarsi come si era e cosa si è diventati. A un certo punto della vita, maturare significa spogliarsi delle proprie abitudini e fare i conti con ciò che c’è sul tavolo. Aurelio, che nei contratti cinematografici faceva accludere dai legali clausole apparentemente bizzarre – “L’opera è da considerarsi valida se durante la proiezione si verificano almeno tre boati in sala” – sa che il film del Napoli ha ottenuto più applausi di quanti anche il più ottimista tra gli ottimisti, Aurelio stesso, avrebbe mai potuto prevedere.

A novant’anni, Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la storia del cinema, non aveva nessuna voglia di andarsene: “Se mi abbandonassi alla pensione e stessi in poltrona morirei immediatamente. Per me vale sempre la regola delle tre C. Ci vogliono cervello, cuore e coglioni. Se ci sono, si può andare avanti”. Sembra di leggere Patrizia Cavalli: “E’ tutto così semplice / è tale l’evidenza / che quasi non ci credo. A questo serve il corpo / mi tocchi o non mi tocchi / mi abbracci o mi allontani / il resto è per i pazzi”. Aurelio, tutto brillantina e coraggio, è della stessa pasta di Dino. Solo il nipote conosce lo zio e non c’è bisogno di dirlo.

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